Accalcate sotto il pulpito, intabarrate come dei cosacchi dopo una battuta di caccia, si spingevano l'un l'altra per guadagnarsi il posto più vicino al palchetto in legno cinto da coccarde dorate.
La signora Berma oggi era più bella del solito. Si era addobbata con una pelliccia di ratto muschiato con tonalità tendenti al grigio, sembrava avesse fatto il bagno in un forno crematorio. Anche il suo viso ricordava vagamente il colorito di una casa cantoniera: la quantità di cerone steso sulle sue guance non era dissimile da quello di un eunuco alla corte di quella rompicoglioni della Turandot. Oltre il pellicciotto potato male, indossava un cappello color tortora a forma di nido. Non era affatto di cattivo gusto – in confronto al mantello peloso faceva la sua bella figura, un po’ come quando vedi due donne grasse e scimmiesche, ma una ha i baffi e l'altra no. Questo cappello le rendeva un'aria regale e le assicurava anche l'appartenenza a una precisa classe sociale, sottolineata per altro da un anello purpureo. La pietra preziosa era talmente preziosa che non si poteva guardare senza perdere almeno una diottria, infatti ogni qual volta uno dei suoi amichetti si arrischiava a farle un baciamano il suo aspetto mutava pressappoco in quello di uno dei pastorelli di Lourdes dopo aver visto la madonna. Insomma, la Berma era una di quelle virago che non si faceva mancare alcunché. Oltretutto godeva di una stima sociale determinata dalla sua fama di meretrice.
Quel pomeriggio la Berma era carica di orgoglio e aspettative, quel giorno la Berma avrebbe incontrato Carlos Pequeño. La folla era agitata come una mandria di bovini, lottavano ferocemente tra di loro senza ritegno alcuno. Un bastone di mogano volò sopra le teste fiorite delle madame, roteò vorticosamente in aria per qualche secondo fino a sfondare l’acconciatura da prima comunione di una delle presenti. A quell’ignoto affronto seguì un urlo strozzato: “monarchica”! Degli spaghetti al pomodoro finirono in faccia a qualcuno che rispose con l’apertura di un estintore. La security ormai era stata annientata, le rampanti signore erano più cariche di un proletario. Dei fumogeni dal fondo incendiarono i capelli di una che, presa dal panico, iniziò a emanare flatulenze importanti. Intorno a lei si creò il vuoto, poi la cacciarono via a bastonate. Un’invasata correva nella sala completamente nuda e toccava i sederi alle altre. Un nano faceva dei salti mortali e si lanciava da una parte all’altra della sala aiutandosi con delle liane. Uno struzzo infastidiva la borsetta a forma di casa di babbo natale di una delle presenti. La Berma sbuffò incollerita e, divaricando le braccia come una pollastra, tentava di difendere il territorio.
Un colpo di fucile interruppe il grugnire delle sottili figurine di lardo di Colonnata. Le petronille attonite si immobilizzarono come per effetto di un’ipnosi. Le trombe suonarono e Carlos Pequeño irruppe nella sala cavalcando una giumenta saura. Il silenzio calò come calano i mutandoni di una suora. Alla visione del loro idolo le vecchie dentiere tremarono, immobili come mai prima, si sarebbero credute morte se non fosse stato per la quantità indescrivibile di ori coi quali addobbavano le loro carcasse. Ammutolite e impavide, per un istante abbandonarono le loro velleità femminee per contemplare il sublime. La Berma, col mento alzato verso l’avvenire, protendeva lo sguardo al di là delle sciatte sue rivali, in estasi. Pensava di aver raggiunto il punto di svolta della sua vita, il momento nel quale una donna può anche decidere di rinunciare all’attività sessuale per dedicarsi a un ideale più nobile. Una prorompente matrona cinta da della seta smeraldo disse “se non fosse per l’ictus fulminante che ha immobilizzato mio marito durante un amplesso con un caprino, seguirei i consigli di Carlos alla lettera”. La Berma arricciando il labbro destro si limitò ad annuire. Tutte sognavano di poter trascorre un’ora della loro misera vita assieme al grande Pequeño, lui che aveva sconfitto la politelia e diminuito la possibilità di contrarre la sciatalgia al di sotto dei vent’anni, lui che trattava le donne come dei sufflè da sgonfiare, lui che piuttosto di avere della servitù asiatica aveva addestrato un allevamento di scoiattoli inglesi per aiutarlo a fare il bagno caldo. Solo un uomo aveva superato, nella classifica del cuore di lor signore, personalità come Topper Harley o Alfred Howthorn Hill, e quest’uomo era Carlos Pequeño. Quel qualunque giovedì grasso, nel quale i bambini avrebbero rincorso i carretti ricolmi di frittelle colanti olio e i nonni avrebbero cercato invano di rimediare un’uscita a quattro con dei travestiti, non sarebbe poi stato un giovedì così qualunque. Quel giorno avrebbe potuto cambiare la vita di una di loro. Sarebbe bastato un battito d’ali di farfalla a scatenare un maremoto in Polinesia in cui sarebbe morto il principe d’Inghilterra la quale salma andata perduta durante il rientro in Europa avrebbe obbligato la zia del reale a rimandare la tumulazione e quindi a licenziare l’impiegato delle pompe funebri che non era altro se non il fratello depresso e alcolista di Pequeño (da qui il nome della ditta: Pequeño mas peño). Quel giovedì semi feriale avrebbe potuto far impennare la curva della soddisfazione femminile più di una mela caramellata annusata sugli Champs Elysée innevati. Indiscutibile era il fascino di un consumatore raffinato di Peyote come Carlos Pequeño.
“Se solo riuscissi ad essere io, giuro che non comprerò più nulla in saldo” pensava tra sé e sé le Berma. Lei era convinta di farcela. Aveva riletto la lettera di presentazione almeno tre volte, l’aveva guardata in controluce, l’aveva profumata con l’acqua di colonia, l’aveva stirata e le aveva anche comprato l’ultimo mini pony della barbie. Era tutta rosa come le migliori creazioni di Carlos, e per darsi un’aria di creatività atipica aveva anche ritagliato tutti i bordini del foglio con dei decori a forma di gargoyles. Niente più oramai la separava dal suo obiettivo. L’aria mutò in un istante, l’orchestra sinfonica smise di suonare l’inno ceco “Jozin z bazin” e la Berma ricollocò il vagare del suo pensiero all’interno del suo cervello, che seppur datato era assicurato. “Siete pronteee?” urlò lo scoiattolo di Pequeño che teneva il palco con grande maestria. Le gentili dame ipocondriache avevano ormai dimenticato tutte le noie delle loro vite quotidiane, avevano dimenticato di non aver spento il forno prima di uscire e ormai non pensavano più al giardiniere ghanese che si occupava di raccogliere le foglie secche del giardino. Nelle loro teste un unico pensiero: avere Carlos. Divaricarono all’indietro sederi, bastoni, fenicotteri e borsette, creando una linea contigua tra i loro nasi e la fibbia a forma di “C” stagliata sui pantaloni bianchi del loro eroe. Una di loro aveva tirato fuori del profumo e iniziato a spruzzarlo nella sala provocando del vomito nella vicina. Entrambe furono fatte uscire con le liane scortate dal nano. La Berma manteneva le prime file. Carlos, in piedi sopra di uno sgabello fucsia ricoperto di diamanti, disse “Muchas gracias, muchas gracias” facendo degli inchini verso la platea rapita da cotanta magnificenza. “Yo vivo para ti, mie signore. Da quando ho decidido di decicarme al vostro mundo, yo entendido que la gente mal comprende la natura de las mujeres majore de sesenta. Voi siete delle creature magnifico, lleno de magia e sensualidad. Dovete essere libere de manifestar en plenidad su feminidad. Ahora, hoy estamos aqui por demostrar al mundo que la donna non può perdere nunca mas la sua beleza. Nunca mas”. Gli applausi salivano arroganti nella sala che ormai era gremita al punto che finestre e porte traboccavano di sottane e cagnolini. “Ahora, solo uno di voi madame serà la fortunata a posare con migo por la campania pubblicitaria de la nueva collecion de “bragas de Carlos” (ndr. Mutandoni di Carlos). Vi rendete conto de la importancia d’esta posibilidad unica en la vida. La foto con Carlos en mutandoni de griff de Carlos Pequeño”. Applausi. Una virago presa dall’emozione aveva cominciato a strappare i capelli a una poveraccia che le stava vicino, altre flatulenze incontrollate s’insinuavano nell’aria. Un’altra, che si era arrampicata sul lampadario di cristallo, precipitò a terra ma quasi nessuno si accorse, tranne il nano che ne uscì menomato. Dal fondo un coro s’alzò al grido di “Carlos Pequeño es un sueño” e mille voci si unirono e tutte insieme urlavano “Carlos Pequeño es un sueño”. La Berma stava per avere un orgasmo.
Carlos ricevette dai suoi scoiattoli una pergamena in laminato d’oro con su scritti i nomi delle finaliste, dunque quello della vincitrice. Gettò uno sguardo sotto il palco come a sottolineare la sua magnificenza, la sua impalpabile virilità. Lui che, vestito di bianco, sembrava un angelo a una convention di benzinai; lui che, con quei capelli lunghi e corvini, sembrava un corvo in uno stormo di anatidi; lui che raffinato nei modi, sembrava una teiera di porcellana in un servizio di tazzine vinto alla pesca di beneficenza. Molto più che un bizantino, Pequeño sembrava una folata di vento su una parrucca fissata male. Tese la lastra davanti a sé “señores, attencion. Basta flatulencias e basta violencia, noi siamo por la paz en vietnam porque los animales deben porseguir son comunismo en libertad. Ahora, aqui yo el nome della madame fortunata. Es la señora Mediatrice Berma”! Al risuonare del nome “Berma” nella sala attaccò un motivetto celebre negli anni novanta cantato da un gruppo di successo, i vengaboys. Cadevano cosce di cotechino dal soffitto e ciuffi di topinambur spuntavano dal pavimento in legno. Una moltitudine di nani seguiti da struzzi iniziarono a girare per la sala su dei pattini a quattro rotelle con dei vassoi ricolmi di pasticcio. D’alcol ve n’era a volontà. Le luci erano di mille colori, e ricreavano l’immagine del cubo di Rubik sulle pareti. Tutte danzavano in cerchio, creando degli eterni ritorni dell’uguale concentrici. Solo un serpente venne schiacciato inavvertitamente da una maldestra danzatrice. Erano tutti talmente rapiti nel loro impeto di gioia e opulenza che nessuno si accorse che il corpo privo di sensi della Berma riposava asciutto tra bucce di cotechino e pezzi di besciamella. Il suo cuore non aveva retto all’immensa soddisfazione che Carlos Pequeño le aveva procurato quel pomeriggio di un giovedì grasso qualunque. Era spirata così, senza tante pretese, senza tanti se o ma. Era spirata con dignità – anche se lo struzzo di Pequeño continuava a strusciarsi sul suo bastone emettendo piccoli gridolini di piacere. Fu così che Mediatrice Berma, miseramente, cedette al suo sogno di posare nuda con addosso solo i mutandoni di pizzo beige di Carlos Pequeño.
Vittoria Sgarbo
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