M. è una signora di 45 anni. Tramite una reazione chimica di ossidazione, molecole di colore le sono penetrate nei pori del fusto dei capelli, conferendo alla sua chioma il color biondo cenere. Da anni porta i capelli a mezza lunghezza. La ciclistica dell’acconciatura di M., fa si che due ciocche di capelli anteriori, separate dall’attaccatura centrale, ondeggino seguendo l’inerzia dei suoi movimenti. Ad ogni passo di M. queste si scontrano con la montatura degli occhiali tondi indossati per correggere la miopia. Il fisico di M. resiste all’incedere del tempo ma la sua pelle è solcata dai segni delle troppe sigarette fumate negli anni. La si potrebbe, tuttavia, considerare una bella signora.
M. è sposata con G. da 17 anni. G. è un modesto medico di provincia mentre M. insegna matematica in un liceo scientifico. Insieme incarnano una coppia della medio borghesia perfettamente adattata al proprio contesto sociale. M. e G. prendono parte a tutte le attività organizzate per le persone della loro estrazione sociale. Durante la settimana cenano alle sette e trenta, durante la cena guardano uno fra i tanti giochi a premi proposti dal palinsesto serale e provano a indovinare le risposte prima che lo facciano i concorrenti. A volte ci riescono altre volte no. Dopo cena guardano un film scegliendo fra le varie offerte della tv satellitare. Se c’è qualche partita di coppa, G. la guarda svogliato mentre M. si butta a letto a leggere uno fra i tanti thriller svedesi che vanno di moda. Capita non di rado che la loro parrocchia proponga degli incontri con personaggi reduci di fama o vagamente impegnati in attività di volontariato. I due coniugi prendono parte a quelle serate con entusiasmo e curiosità. Il venerdì vanno a teatro, da cinque anni sono abbonati a due posti in platea. Abbonata ai posti accanto ai loro c’è una coppia che li assomiglia e con cui da un paio d’anni condividono pedissequamente quell’appuntamento settimanale. Chiacchierano in modo generico di arte d’intrattenimento e scivolano sui commenti con leggerezza. Il sabato escono a cena con due coppie che hanno grossomodo la loro età. Sono amicizie di vecchia data conservate per rispondere alla necessità viziata e indomabile di contatto sociale. La domenica è la giornata jolly da trascorrere o nella più totale inerzia o svolgendo qualche attività estemporanea ma prevedibile. Per esempio, i coniugi G., possono andare a una mostra di fotografia organizzata nel piccolo museo comunale. Altre volte decidono di prendere la macchina e andare a passeggiare nel centro di qualche comune limitrofo. Nel periodo dei saldi si recano all’outlet per rimpinguare il guardaroba. La domenica è anche la giornata che M. dedica ai mestieri di casa mentre G. segue il campionato di calcio.
M. e G. si vogliono molto bene. Quasi una volta al mese fanno l’amore con discreto trasporto nonostante la zavorra fisica ed emotiva accumulata negli anni. A dispetto dell’impegno costante non hanno figli, perché G. ha un numero di spermatozoi piuttosto basso e i pochi girini che nuotano nella sua sacca scrotale sono pigri e disorientati. Da quasi dieci anni hanno smesso di desiderare un figlio. Sulle prime pensavano di sublimare alla mancanza di prole acquistando un cane di media taglia ma con il passare del tempo l’intenzione è venuta meno e si sono abituati al pensiero di risolversi in una relazione diadica.
Era maggio, un lunedì per l’esattezza, e M. durante la seconda ora stava interrogando F. sulle disequazioni. F. rosso in viso aggrottava la fronte per fingere di rovistare tra i ricordi la codifica di quella striscia di simboli tracciati alla lavagna. Dentro di se, F., sentiva il peso dell’ignoranza e pensava a quanto sarebbe ancora durato quel supplizio. Aspettava solo di essere rimproverato per la sua negligenza e di essere rimandato al posto con una pessima valutazione. Il resto della classe era paralizzata da un’agitazione silenziosa. Il mutismo di F. avrebbe concluso precocemente l’interrogazione lasciando tutto il tempo per una seconda esecuzione. Pochi minuti e liberato il patibolo sarebbe stato il turno di un altro condannato.
- Non ricordi come si fa? – chiese M. con tono perentorio
F. non ebbe cuore di rispondere a quella domanda retorica e si limitò ad abbassare lo sguardo verso il gessetto bianco che gli sporcava le dita. La botola era aperta e ora dondolava appeso alla corda tesa del cappio. Presto l’agonia sarebbe cessata.
- Vai al posto. Ti metto impreparato. Proverò ad interrogarti la prossima settimana. Bada che si tratta di un favore. Quest’anno rischi di brutto.
F. umiliato sentiva il suo corpo recuperare l’omeostasi mentre inesorabile tornava a sedersi.
- È presto, faccio in tempo ad interrogare un’altra persona. Vediamo. - M. aprì il suo registro e con l’indice della mano destra tracciava delle linee immaginarie che andavano dall’elenco dei nomi incolonnati sulla sinistra fino all’elenco dei voti sulla destra della pagina. La classe attendeva in religioso silenzio la sentenza. Gli occhi di tutti erano fissati sulla macabra danza di quel dito nell’incerta speranza di coglierne la posizione sull’elenco. Il dito si fermò e colpì il foglio con una caduta quasi impercettibile Fu il terrore a trasformare quel gesto in un fragore sordo.
- Bene, allora interroghiamo L.
L. sbiancò e sotto il banco strinse il pugno come per sincerarsi che quella tragedia si stesse davvero compiendo. Il resto della classe liberò l’aria da troppo tempo trattenuta all’interno dei polmoni. L. si alzò lentamente e prese posto davanti alla lavagna, impugnò il gessetto e guardò M. con occhi vuoti.
In quell’istante bussarono alla porta dell’aula.
Entrò la bidella, una graziosa vecchina dai capelli grigi permanentati, fasciata in un grembiule azzurro decisamente vintage.
- Professoressa, può venire un momento c’è una telefonata per lei.
- Ragazzi torno subito. L. aspettami qui e intanto risolvi la disequazione cercando di fare meglio di F.
M. uscì dalla porta lasciandola aperta, un gesto teso a mitigare la spirale parossistica di baccano che si auto genera quando la classe viene lasciata alla mercé del suo buon senso. Un gesto inutile il cui unico effetto è quello di diffondere il sapore della libertà lungo tutti i corridoi delle scuola. L. imprecava con veemenza elemosinando aiuti dai compagni più diligenti. D’altra parte, questi ultimi facevano i difficili per ritagliarsi una piccola rivincita personale. In cuor suo L., sperava che la professoressa non sarebbe tornata ma era troppo privo di fede per credere ai miracoli.
Era maggio, un lunedì per l’esattezza. G. stava correndo lungo l’autostrada per raggiungere il capoluogo della sua regione. I pneumatici da 17 pollici della sua famigliare aggredivano l’asfalto rovente. Lo avevano chiamato la settimana scorsa per un consulto medico. L’abnegazione per il lavoro aveva, negli anni, conferito a G. una certa fama nel settore. Capitava quindi sovente che venisse richiesto il suo parere da colleghi al di fuori del suo comune di residenza. La dizione perfetta del giornalista diffondeva in tutto l’abitacolo le notizie del giornale radio. Dallo specchietto retrovisore pendeva un cristo che dondolava piano liberando quel surrogato di moto ricevuto dalle impercettibili vibrazioni dell’auto. Il cielo era pieno di sole e la viabilità buona.
G. pensava che avrebbe fatto in tempo, sulla via del ritorno, a fare la spesa. Era indeciso se acquistare un melone e del prosciutto crudo oppure delle bistecche da preparare nella griglia in giardino. Forse la prima idea si intonava maggiormente con il clima ma la sua indole carnivora lo rendeva debole verso la seduzione di una buona bistecca.
Le notizie alla radio lo annoiavano e sperava che presto sarebbe ricominciata la musica. Non cambiava mai stazione. Non amava qualche gruppo o cantante in particolare, semplicemente preferiva la compagnia delle note per i suoi viaggi.
In prima corsia un camion gli bloccava la strada e gli rallentava l’andatura, G. guardò lo specchietto e mise la freccia per superare. Superò il pesante camion con facilità. G. era solito rientrare subito dopo i sorpassi in autostrada, era molto critico verso chi si piazzava in seconda o terza corsia e ci rimaneva anche nel caso le corsie più a destra fossero deserte. Quel lunedì G., distratto dal paesaggio, indugiò un po’ prima di rientrare venendo meno alla sua rigorosa abitudine.
Mentre la voce del giornalista si congedava e dava appuntamento a “tra un’ora”, G. sterzò improvvisamente per evitare una piccola sagoma informe che giaceva sul lato sinistro della corsia di sorpasso.
Il signor D. era un medico molto legato a G. e a M.. D. e M. erano in piedi fuori dalla stanza in cui era ricoverato G. in seguito a un brutto incidente d’auto. Lui le stava spiegando le condizioni in cui verteva suo marito allo stato attuale, con reale empatia e trattenendo a stento la commozione.
In seguito alla brusca sterzata G. era finito fuori strada. L’impatto era stato tremendo e la macchina aveva dovuto ruotare su se stesse numerose volte prima di dissipare tutto il suo moto inerziale. Poiché si trattava di un’auto moderna, dotata di tutte le ultime tecnologie in fatto di sicurezza, l’abitacolo nonostante le forze che spingeva per comprimerlo aveva resistito evitando che G. venisse schiacciato dalle lamiere. Tuttavia durante quel vortice il corpo di G., per quanto imbrigliato saldamente nelle cinture di sicurezza, era stato sbattuto di qua e di là e il crocefisso appeso allo specchietto retrovisore si era trovato miracolosamente tra il tetto dell’auto e il suo cranio. La sua forma appuntita e la sua durezza gli conferivano un coefficiente di penetrazione tale per cui attraversò il cranio di G. come se fosse burro e andò a infilarsi nella corteccia prefrontale dorso laterale del cervello, facendo scempio di tutto ciò di organico che provava a frenare il suo scivolare.
- Quante volte gli ho detto di lasciar perdere quei feticci religiosi. – Commentò M. laconica.
- Io rispettavo la sua fede, tuttavia quanto accaduto mi fa ricredere.
- Bisogna capirlo in fondo. La sua famiglia era molto cattolica. Lui ne ha ereditato le usanze. Pensa che sua madre mi obbligava a ringraziare per il cibo prima del pranzo domenicale.
D. proseguì con le informazioni diagnostiche che descrivevano un quadro agghiacciante. Se il suo cervello era tragicamente compromesso le sue funzioni motorie non lo erano di meno. Gli strattoni subiti da G. durante l’incidente gli avevano spezzato la schiena all’altezza della quarta vertebra lombare paralizzandolo dalla vita in giù.
- L’intervento medico è andato a buon fine e tuo marito se la caverà ma come puoi immaginare i danni che ha subito saranno permanenti. A volte sarebbe meglio lasciare alla natura la libertà di manifestarsi.
- Non dire sciocchezze. Non avrei mai potuto preferire la sua morte.
- Non dico questo, solo che devi renderti conto di cosa comportano le ferite che ha subito.
- Che sarà mai di così drammatico da essere peggiore della morte?
- Tuo marito non camminerà più...
- Non ha mai amato camminare, prendeva la macchina anche per andare in edicola a comprare il giornale. Credo che gli piacerà starsene tutto il giorno in panciolle sul divano e farsi scorrazzare in giro dalla sua mogliettina. È sempre stato un comodone. Inoltre i disabili hanno un sacco di privilegi, parcheggi gratuiti, posti riservati alle manifestazioni mondane, sconti e sussidi di invalidità. Ti dirò, non mi dispiace il fatto che sia paralizzato. Certi giorni in centro è proprio impossibile trovare parcheggio.
- Ma non devi sottovalutare l’aspetto cognitivo. I danni cerebrali che ha subito sono importanti. Non sarà più quello di una volta. Il danno è localizzato a destra ed è piuttosto vasto. Il nostro G. ora è privo di reattività agli stimoli esterni. Non ci capisce. Poi…
- Poi?
- Poi non credo che tornerà ad essere autosufficiente.
- Se è per questo non lo è mai stato. Chi credi che gli facesse il bucato? O chi credi che gli preparasse la cena? Fidati, se non mi avesse sposato sarebbe morto di fame sporco e con la camicia stropicciata.
- Senza dubbio sei un’ottima moglie, però io voglio dire che l’incidente lo ha reso…è come se fosse regredito ad uno stadio infantile.
- Beata la volta! Ho sempre desiderato un figlio. Sai io e G. non potevamo averne perché i suoi spermatozoi sono timidi. Alla fine ci avevamo rinunciato. Ora finalmente potrò provare la gioia di essere mamma.
- Ma non sarà esattamente come avere un figlio. Un figlio piano piano si riempie del mondo che lo circonda e quando è abbastanza pieno comincia a interagirci a un livello sempre più complesso. G. rimarrà sempre bambino.
- Il sogno di ogni mamma se non erro? Quale madre vuole vedere il bambino che ha portato in grembo per nove mesi rivoltarsi contro di lei. Andarsene dal nido alla ricerca della propria indipendenza. Io avrò un piccolo G. tutto per me per sempre. Lo coccolerò come il figlio che non ho mai avuto finché avrò vita. Non vedo l’ora di portalo a casa.
M. è una signora di 50 anni. Tramite una reazione chimica di ossidazione, molecole di colore le sono penetrate nei pori del fusto dei capelli conferendo alla sua chioma il color biondo cenere. Da anni ogni week end porta a spasso il marito paraplegico e demente per le vie del piccolo comune dove abitano e sono felicemente sposati. Suo marito guarda fisso nel vuoto con un sorriso ebete stampato sul viso mentre sua moglie spinge la carrozzina con un’espressione carica di affetto.
Entrambi non potrebbero essere più felici di così.
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