lunedì 26 dicembre 2011

Buon Natale

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Tratto da "il peggio di internet"
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domenica 25 dicembre 2011

Hai sempre voluto un animale di taglia media

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M. è una signora di 45 anni. Tramite una reazione chimica di ossidazione, molecole di colore le sono penetrate nei pori del fusto dei capelli, conferendo alla sua chioma il color biondo cenere. Da anni porta i capelli a mezza lunghezza. La ciclistica dell’acconciatura di M., fa si che due ciocche di capelli anteriori, separate dall’attaccatura centrale, ondeggino seguendo l’inerzia dei suoi movimenti. Ad ogni passo di M. queste si scontrano con la montatura degli occhiali tondi indossati per correggere la miopia. Il fisico di M. resiste all’incedere del tempo ma la sua pelle è solcata dai segni delle troppe sigarette fumate negli anni. La si potrebbe, tuttavia, considerare una bella signora.

M. è sposata con G. da 17 anni. G. è un modesto medico di provincia mentre M. insegna matematica in un liceo scientifico. Insieme incarnano una coppia della medio borghesia perfettamente adattata al proprio contesto sociale. M. e G. prendono parte a tutte le attività organizzate per le persone della loro estrazione sociale. Durante la settimana cenano alle sette e trenta, durante la cena guardano uno fra i tanti giochi a premi proposti dal palinsesto serale e provano a indovinare le risposte prima che lo facciano i concorrenti. A volte ci riescono altre volte no. Dopo cena guardano un film scegliendo fra le varie offerte della tv satellitare. Se c’è qualche partita di coppa, G. la guarda svogliato mentre M. si butta a letto a leggere uno fra i tanti thriller svedesi che vanno di moda. Capita non di rado che la loro parrocchia proponga degli incontri con personaggi reduci di fama o vagamente impegnati in attività di volontariato. I due coniugi prendono parte a quelle serate con entusiasmo e curiosità. Il venerdì vanno a teatro, da cinque anni sono abbonati a due posti in platea. Abbonata ai posti accanto ai loro c’è una coppia che li assomiglia e con cui da un paio d’anni condividono pedissequamente quell’appuntamento settimanale. Chiacchierano in modo generico di arte d’intrattenimento e scivolano sui commenti con leggerezza. Il sabato escono a cena con due coppie che hanno grossomodo la loro età. Sono amicizie di vecchia data conservate per rispondere alla necessità viziata e indomabile di contatto sociale. La domenica è la giornata jolly da trascorrere o nella più totale inerzia o svolgendo qualche attività estemporanea ma prevedibile. Per esempio, i coniugi G., possono andare a una mostra di fotografia organizzata nel piccolo museo comunale. Altre volte decidono di prendere la macchina e andare a passeggiare nel centro di qualche comune limitrofo. Nel periodo dei saldi si recano all’outlet per rimpinguare il guardaroba. La domenica è anche la giornata che M. dedica ai mestieri di casa mentre G. segue il campionato di calcio.

M. e G. si vogliono molto bene. Quasi una volta al mese fanno l’amore con discreto trasporto nonostante la zavorra fisica ed emotiva accumulata negli anni. A dispetto dell’impegno costante non hanno figli, perché G. ha un numero di spermatozoi piuttosto basso e i pochi girini che nuotano nella sua sacca scrotale sono pigri e disorientati. Da quasi dieci anni hanno smesso di desiderare un figlio. Sulle prime pensavano di sublimare alla mancanza di prole acquistando un cane di media taglia ma con il passare del tempo l’intenzione è venuta meno e si sono abituati al pensiero di risolversi in una relazione diadica.

Era maggio, un lunedì per l’esattezza, e M. durante la seconda ora stava interrogando F. sulle disequazioni. F. rosso in viso aggrottava la fronte per fingere di rovistare tra i ricordi la codifica di quella striscia di simboli tracciati alla lavagna. Dentro di se, F., sentiva il peso dell’ignoranza e pensava a quanto sarebbe ancora durato quel supplizio. Aspettava solo di essere rimproverato per la sua negligenza e di essere rimandato al posto con una pessima valutazione. Il resto della classe era paralizzata da un’agitazione silenziosa. Il mutismo di F. avrebbe concluso precocemente l’interrogazione lasciando tutto il tempo per una seconda esecuzione. Pochi minuti e liberato il patibolo sarebbe stato il turno di un altro condannato.

- Non ricordi come si fa? – chiese M. con tono perentorio

F. non ebbe cuore di rispondere a quella domanda retorica e si limitò ad abbassare lo sguardo verso il gessetto bianco che gli sporcava le dita. La botola era aperta e ora dondolava appeso alla corda tesa del cappio. Presto l’agonia sarebbe cessata.

- Vai al posto. Ti metto impreparato. Proverò ad interrogarti la prossima settimana. Bada che si tratta di un favore. Quest’anno rischi di brutto.

F. umiliato sentiva il suo corpo recuperare l’omeostasi mentre inesorabile tornava a sedersi.

- È presto, faccio in tempo ad interrogare un’altra persona. Vediamo. - M. aprì il suo registro e con l’indice della mano destra tracciava delle linee immaginarie che andavano dall’elenco dei nomi incolonnati sulla sinistra fino all’elenco dei voti sulla destra della pagina. La classe attendeva in religioso silenzio la sentenza. Gli occhi di tutti erano fissati sulla macabra danza di quel dito nell’incerta speranza di coglierne la posizione sull’elenco. Il dito si fermò e colpì il foglio con una caduta quasi impercettibile Fu il terrore a trasformare quel gesto in un fragore sordo.

- Bene, allora interroghiamo L.

L. sbiancò e sotto il banco strinse il pugno come per sincerarsi che quella tragedia si stesse davvero compiendo. Il resto della classe liberò l’aria da troppo tempo trattenuta all’interno dei polmoni. L. si alzò lentamente e prese posto davanti alla lavagna, impugnò il gessetto e guardò M. con occhi vuoti.

In quell’istante bussarono alla porta dell’aula.

Entrò la bidella, una graziosa vecchina dai capelli grigi permanentati, fasciata in un grembiule azzurro decisamente vintage.

- Professoressa, può venire un momento c’è una telefonata per lei.

- Ragazzi torno subito. L. aspettami qui e intanto risolvi la disequazione cercando di fare meglio di F.

M. uscì dalla porta lasciandola aperta, un gesto teso a mitigare la spirale parossistica di baccano che si auto genera quando la classe viene lasciata alla mercé del suo buon senso. Un gesto inutile il cui unico effetto è quello di diffondere il sapore della libertà lungo tutti i corridoi delle scuola. L. imprecava con veemenza elemosinando aiuti dai compagni più diligenti. D’altra parte, questi ultimi facevano i difficili per ritagliarsi una piccola rivincita personale. In cuor suo L., sperava che la professoressa non sarebbe tornata ma era troppo privo di fede per credere ai miracoli.

Era maggio, un lunedì per l’esattezza. G. stava correndo lungo l’autostrada per raggiungere il capoluogo della sua regione. I pneumatici da 17 pollici della sua famigliare aggredivano l’asfalto rovente. Lo avevano chiamato la settimana scorsa per un consulto medico. L’abnegazione per il lavoro aveva, negli anni, conferito a G. una certa fama nel settore. Capitava quindi sovente che venisse richiesto il suo parere da colleghi al di fuori del suo comune di residenza. La dizione perfetta del giornalista diffondeva in tutto l’abitacolo le notizie del giornale radio. Dallo specchietto retrovisore pendeva un cristo che dondolava piano liberando quel surrogato di moto ricevuto dalle impercettibili vibrazioni dell’auto. Il cielo era pieno di sole e la viabilità buona.

G. pensava che avrebbe fatto in tempo, sulla via del ritorno, a fare la spesa. Era indeciso se acquistare un melone e del prosciutto crudo oppure delle bistecche da preparare nella griglia in giardino. Forse la prima idea si intonava maggiormente con il clima ma la sua indole carnivora lo rendeva debole verso la seduzione di una buona bistecca.

Le notizie alla radio lo annoiavano e sperava che presto sarebbe ricominciata la musica. Non cambiava mai stazione. Non amava qualche gruppo o cantante in particolare, semplicemente preferiva la compagnia delle note per i suoi viaggi.

In prima corsia un camion gli bloccava la strada e gli rallentava l’andatura, G. guardò lo specchietto e mise la freccia per superare. Superò il pesante camion con facilità. G. era solito rientrare subito dopo i sorpassi in autostrada, era molto critico verso chi si piazzava in seconda o terza corsia e ci rimaneva anche nel caso le corsie più a destra fossero deserte. Quel lunedì G., distratto dal paesaggio, indugiò un po’ prima di rientrare venendo meno alla sua rigorosa abitudine.

Mentre la voce del giornalista si congedava e dava appuntamento a “tra un’ora”, G. sterzò improvvisamente per evitare una piccola sagoma informe che giaceva sul lato sinistro della corsia di sorpasso.

Il signor D. era un medico molto legato a G. e a M.. D. e M. erano in piedi fuori dalla stanza in cui era ricoverato G. in seguito a un brutto incidente d’auto. Lui le stava spiegando le condizioni in cui verteva suo marito allo stato attuale, con reale empatia e trattenendo a stento la commozione.

In seguito alla brusca sterzata G. era finito fuori strada. L’impatto era stato tremendo e la macchina aveva dovuto ruotare su se stesse numerose volte prima di dissipare tutto il suo moto inerziale. Poiché si trattava di un’auto moderna, dotata di tutte le ultime tecnologie in fatto di sicurezza, l’abitacolo nonostante le forze che spingeva per comprimerlo aveva resistito evitando che G. venisse schiacciato dalle lamiere. Tuttavia durante quel vortice il corpo di G., per quanto imbrigliato saldamente nelle cinture di sicurezza, era stato sbattuto di qua e di là e il crocefisso appeso allo specchietto retrovisore si era trovato miracolosamente tra il tetto dell’auto e il suo cranio. La sua forma appuntita e la sua durezza gli conferivano un coefficiente di penetrazione tale per cui attraversò il cranio di G. come se fosse burro e andò a infilarsi nella corteccia prefrontale dorso laterale del cervello, facendo scempio di tutto ciò di organico che provava a frenare il suo scivolare.

- Quante volte gli ho detto di lasciar perdere quei feticci religiosi. – Commentò M. laconica.

- Io rispettavo la sua fede, tuttavia quanto accaduto mi fa ricredere.

- Bisogna capirlo in fondo. La sua famiglia era molto cattolica. Lui ne ha ereditato le usanze. Pensa che sua madre mi obbligava a ringraziare per il cibo prima del pranzo domenicale.

D. proseguì con le informazioni diagnostiche che descrivevano un quadro agghiacciante. Se il suo cervello era tragicamente compromesso le sue funzioni motorie non lo erano di meno. Gli strattoni subiti da G. durante l’incidente gli avevano spezzato la schiena all’altezza della quarta vertebra lombare paralizzandolo dalla vita in giù.

- L’intervento medico è andato a buon fine e tuo marito se la caverà ma come puoi immaginare i danni che ha subito saranno permanenti. A volte sarebbe meglio lasciare alla natura la libertà di manifestarsi.

- Non dire sciocchezze. Non avrei mai potuto preferire la sua morte.

- Non dico questo, solo che devi renderti conto di cosa comportano le ferite che ha subito.

- Che sarà mai di così drammatico da essere peggiore della morte?

- Tuo marito non camminerà più...

- Non ha mai amato camminare, prendeva la macchina anche per andare in edicola a comprare il giornale. Credo che gli piacerà starsene tutto il giorno in panciolle sul divano e farsi scorrazzare in giro dalla sua mogliettina. È sempre stato un comodone. Inoltre i disabili hanno un sacco di privilegi, parcheggi gratuiti, posti riservati alle manifestazioni mondane, sconti e sussidi di invalidità. Ti dirò, non mi dispiace il fatto che sia paralizzato. Certi giorni in centro è proprio impossibile trovare parcheggio.

- Ma non devi sottovalutare l’aspetto cognitivo. I danni cerebrali che ha subito sono importanti. Non sarà più quello di una volta. Il danno è localizzato a destra ed è piuttosto vasto. Il nostro G. ora è privo di reattività agli stimoli esterni. Non ci capisce. Poi…

- Poi?

- Poi non credo che tornerà ad essere autosufficiente.

- Se è per questo non lo è mai stato. Chi credi che gli facesse il bucato? O chi credi che gli preparasse la cena? Fidati, se non mi avesse sposato sarebbe morto di fame sporco e con la camicia stropicciata.

- Senza dubbio sei un’ottima moglie, però io voglio dire che l’incidente lo ha reso…è come se fosse regredito ad uno stadio infantile.

- Beata la volta! Ho sempre desiderato un figlio. Sai io e G. non potevamo averne perché i suoi spermatozoi sono timidi. Alla fine ci avevamo rinunciato. Ora finalmente potrò provare la gioia di essere mamma.

- Ma non sarà esattamente come avere un figlio. Un figlio piano piano si riempie del mondo che lo circonda e quando è abbastanza pieno comincia a interagirci a un livello sempre più complesso. G. rimarrà sempre bambino.

- Il sogno di ogni mamma se non erro? Quale madre vuole vedere il bambino che ha portato in grembo per nove mesi rivoltarsi contro di lei. Andarsene dal nido alla ricerca della propria indipendenza. Io avrò un piccolo G. tutto per me per sempre. Lo coccolerò come il figlio che non ho mai avuto finché avrò vita. Non vedo l’ora di portalo a casa.

M. è una signora di 50 anni. Tramite una reazione chimica di ossidazione, molecole di colore le sono penetrate nei pori del fusto dei capelli conferendo alla sua chioma il color biondo cenere. Da anni ogni week end porta a spasso il marito paraplegico e demente per le vie del piccolo comune dove abitano e sono felicemente sposati. Suo marito guarda fisso nel vuoto con un sorriso ebete stampato sul viso mentre sua moglie spinge la carrozzina con un’espressione carica di affetto.

Entrambi non potrebbero essere più felici di così.

Boz Francesco


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sabato 24 dicembre 2011

XXX

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Accalcate sotto il pulpito, intabarrate come dei cosacchi dopo una battuta di caccia, si spingevano l'un l'altra per guadagnarsi il posto più vicino al palchetto in legno cinto da coccarde dorate.

La signora Berma oggi era più bella del solito. Si era addobbata con una pelliccia di ratto muschiato con tonalità tendenti al grigio, sembrava avesse fatto il bagno in un forno crematorio. Anche il suo viso ricordava vagamente il colorito di una casa cantoniera: la quantità di cerone steso sulle sue guance non era dissimile da quello di un eunuco alla corte di quella rompicoglioni della Turandot. Oltre il pellicciotto potato male, indossava un cappello color tortora a forma di nido. Non era affatto di cattivo gusto – in confronto al mantello peloso faceva la sua bella figura, un po’ come quando vedi due donne grasse e scimmiesche, ma una ha i baffi e l'altra no. Questo cappello le rendeva un'aria regale e le assicurava anche l'appartenenza a una precisa classe sociale, sottolineata per altro da un anello purpureo. La pietra preziosa era talmente preziosa che non si poteva guardare senza perdere almeno una diottria, infatti ogni qual volta uno dei suoi amichetti si arrischiava a farle un baciamano il suo aspetto mutava pressappoco in quello di uno dei pastorelli di Lourdes dopo aver visto la madonna. Insomma, la Berma era una di quelle virago che non si faceva mancare alcunché. Oltretutto godeva di una stima sociale determinata dalla sua fama di meretrice.

Quel pomeriggio la Berma era carica di orgoglio e aspettative, quel giorno la Berma avrebbe incontrato Carlos Pequeño. La folla era agitata come una mandria di bovini, lottavano ferocemente tra di loro senza ritegno alcuno. Un bastone di mogano volò sopra le teste fiorite delle madame, roteò vorticosamente in aria per qualche secondo fino a sfondare l’acconciatura da prima comunione di una delle presenti. A quell’ignoto affronto seguì un urlo strozzato: “monarchica”! Degli spaghetti al pomodoro finirono in faccia a qualcuno che rispose con l’apertura di un estintore. La security ormai era stata annientata, le rampanti signore erano più cariche di un proletario. Dei fumogeni dal fondo incendiarono i capelli di una che, presa dal panico, iniziò a emanare flatulenze importanti. Intorno a lei si creò il vuoto, poi la cacciarono via a bastonate. Un’invasata correva nella sala completamente nuda e toccava i sederi alle altre. Un nano faceva dei salti mortali e si lanciava da una parte all’altra della sala aiutandosi con delle liane. Uno struzzo infastidiva la borsetta a forma di casa di babbo natale di una delle presenti. La Berma sbuffò incollerita e, divaricando le braccia come una pollastra, tentava di difendere il territorio.

Un colpo di fucile interruppe il grugnire delle sottili figurine di lardo di Colonnata. Le petronille attonite si immobilizzarono come per effetto di un’ipnosi. Le trombe suonarono e Carlos Pequeño irruppe nella sala cavalcando una giumenta saura. Il silenzio calò come calano i mutandoni di una suora. Alla visione del loro idolo le vecchie dentiere tremarono, immobili come mai prima, si sarebbero credute morte se non fosse stato per la quantità indescrivibile di ori coi quali addobbavano le loro carcasse. Ammutolite e impavide, per un istante abbandonarono le loro velleità femminee per contemplare il sublime. La Berma, col mento alzato verso l’avvenire, protendeva lo sguardo al di là delle sciatte sue rivali, in estasi. Pensava di aver raggiunto il punto di svolta della sua vita, il momento nel quale una donna può anche decidere di rinunciare all’attività sessuale per dedicarsi a un ideale più nobile. Una prorompente matrona cinta da della seta smeraldo disse “se non fosse per l’ictus fulminante che ha immobilizzato mio marito durante un amplesso con un caprino, seguirei i consigli di Carlos alla lettera”. La Berma arricciando il labbro destro si limitò ad annuire. Tutte sognavano di poter trascorre un’ora della loro misera vita assieme al grande Pequeño, lui che aveva sconfitto la politelia e diminuito la possibilità di contrarre la sciatalgia al di sotto dei vent’anni, lui che trattava le donne come dei sufflè da sgonfiare, lui che piuttosto di avere della servitù asiatica aveva addestrato un allevamento di scoiattoli inglesi per aiutarlo a fare il bagno caldo. Solo un uomo aveva superato, nella classifica del cuore di lor signore, personalità come Topper Harley o Alfred Howthorn Hill, e quest’uomo era Carlos Pequeño. Quel qualunque giovedì grasso, nel quale i bambini avrebbero rincorso i carretti ricolmi di frittelle colanti olio e i nonni avrebbero cercato invano di rimediare un’uscita a quattro con dei travestiti, non sarebbe poi stato un giovedì così qualunque. Quel giorno avrebbe potuto cambiare la vita di una di loro. Sarebbe bastato un battito d’ali di farfalla a scatenare un maremoto in Polinesia in cui sarebbe morto il principe d’Inghilterra la quale salma andata perduta durante il rientro in Europa avrebbe obbligato la zia del reale a rimandare la tumulazione e quindi a licenziare l’impiegato delle pompe funebri che non era altro se non il fratello depresso e alcolista di Pequeño (da qui il nome della ditta: Pequeño mas peño). Quel giovedì semi feriale avrebbe potuto far impennare la curva della soddisfazione femminile più di una mela caramellata annusata sugli Champs Elysée innevati. Indiscutibile era il fascino di un consumatore raffinato di Peyote come Carlos Pequeño.

Se solo riuscissi ad essere io, giuro che non comprerò più nulla in saldo” pensava tra sé e sé le Berma. Lei era convinta di farcela. Aveva riletto la lettera di presentazione almeno tre volte, l’aveva guardata in controluce, l’aveva profumata con l’acqua di colonia, l’aveva stirata e le aveva anche comprato l’ultimo mini pony della barbie. Era tutta rosa come le migliori creazioni di Carlos, e per darsi un’aria di creatività atipica aveva anche ritagliato tutti i bordini del foglio con dei decori a forma di gargoyles. Niente più oramai la separava dal suo obiettivo. L’aria mutò in un istante, l’orchestra sinfonica smise di suonare l’inno ceco “Jozin z bazin” e la Berma ricollocò il vagare del suo pensiero all’interno del suo cervello, che seppur datato era assicurato. “Siete pronteee?” urlò lo scoiattolo di Pequeño che teneva il palco con grande maestria. Le gentili dame ipocondriache avevano ormai dimenticato tutte le noie delle loro vite quotidiane, avevano dimenticato di non aver spento il forno prima di uscire e ormai non pensavano più al giardiniere ghanese che si occupava di raccogliere le foglie secche del giardino. Nelle loro teste un unico pensiero: avere Carlos. Divaricarono all’indietro sederi, bastoni, fenicotteri e borsette, creando una linea contigua tra i loro nasi e la fibbia a forma di “C” stagliata sui pantaloni bianchi del loro eroe. Una di loro aveva tirato fuori del profumo e iniziato a spruzzarlo nella sala provocando del vomito nella vicina. Entrambe furono fatte uscire con le liane scortate dal nano. La Berma manteneva le prime file. Carlos, in piedi sopra di uno sgabello fucsia ricoperto di diamanti, disse “Muchas gracias, muchas gracias” facendo degli inchini verso la platea rapita da cotanta magnificenza. “Yo vivo para ti, mie signore. Da quando ho decidido di decicarme al vostro mundo, yo entendido que la gente mal comprende la natura de las mujeres majore de sesenta. Voi siete delle creature magnifico, lleno de magia e sensualidad. Dovete essere libere de manifestar en plenidad su feminidad. Ahora, hoy estamos aqui por demostrar al mundo que la donna non può perdere nunca mas la sua beleza. Nunca mas”. Gli applausi salivano arroganti nella sala che ormai era gremita al punto che finestre e porte traboccavano di sottane e cagnolini. “Ahora, solo uno di voi madame serà la fortunata a posare con migo por la campania pubblicitaria de la nueva collecion de “bragas de Carlos” (ndr. Mutandoni di Carlos). Vi rendete conto de la importancia d’esta posibilidad unica en la vida. La foto con Carlos en mutandoni de griff de Carlos Pequeño”. Applausi. Una virago presa dall’emozione aveva cominciato a strappare i capelli a una poveraccia che le stava vicino, altre flatulenze incontrollate s’insinuavano nell’aria. Un’altra, che si era arrampicata sul lampadario di cristallo, precipitò a terra ma quasi nessuno si accorse, tranne il nano che ne uscì menomato. Dal fondo un coro s’alzò al grido di “Carlos Pequeño es un sueño” e mille voci si unirono e tutte insieme urlavano “Carlos Pequeño es un sueño”. La Berma stava per avere un orgasmo.

Carlos ricevette dai suoi scoiattoli una pergamena in laminato d’oro con su scritti i nomi delle finaliste, dunque quello della vincitrice. Gettò uno sguardo sotto il palco come a sottolineare la sua magnificenza, la sua impalpabile virilità. Lui che, vestito di bianco, sembrava un angelo a una convention di benzinai; lui che, con quei capelli lunghi e corvini, sembrava un corvo in uno stormo di anatidi; lui che raffinato nei modi, sembrava una teiera di porcellana in un servizio di tazzine vinto alla pesca di beneficenza. Molto più che un bizantino, Pequeño sembrava una folata di vento su una parrucca fissata male. Tese la lastra davanti a sé “señores, attencion. Basta flatulencias e basta violencia, noi siamo por la paz en vietnam porque los animales deben porseguir son comunismo en libertad. Ahora, aqui yo el nome della madame fortunata. Es la señora Mediatrice Berma”! Al risuonare del nome “Berma” nella sala attaccò un motivetto celebre negli anni novanta cantato da un gruppo di successo, i vengaboys. Cadevano cosce di cotechino dal soffitto e ciuffi di topinambur spuntavano dal pavimento in legno. Una moltitudine di nani seguiti da struzzi iniziarono a girare per la sala su dei pattini a quattro rotelle con dei vassoi ricolmi di pasticcio. D’alcol ve n’era a volontà. Le luci erano di mille colori, e ricreavano l’immagine del cubo di Rubik sulle pareti. Tutte danzavano in cerchio, creando degli eterni ritorni dell’uguale concentrici. Solo un serpente venne schiacciato inavvertitamente da una maldestra danzatrice. Erano tutti talmente rapiti nel loro impeto di gioia e opulenza che nessuno si accorse che il corpo privo di sensi della Berma riposava asciutto tra bucce di cotechino e pezzi di besciamella. Il suo cuore non aveva retto all’immensa soddisfazione che Carlos Pequeño le aveva procurato quel pomeriggio di un giovedì grasso qualunque. Era spirata così, senza tante pretese, senza tanti se o ma. Era spirata con dignità – anche se lo struzzo di Pequeño continuava a strusciarsi sul suo bastone emettendo piccoli gridolini di piacere. Fu così che Mediatrice Berma, miseramente, cedette al suo sogno di posare nuda con addosso solo i mutandoni di pizzo beige di Carlos Pequeño.


Vittoria Sgarbo

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venerdì 23 dicembre 2011

Hot Dog

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Lo riconobbe subito. Era uno stupido tatuaggio che rappresentava nientemeno che un hot dog fumante. Un hot dog! Ripensò alla stessa cosa che gli era venuta in mente la prima volta che aveva visto quello stesso segno permanente sul culo di Jimmy: “come cazzo fa uno a incidersi per sempre una tale stronzata sul suo sacro culo”.

Quella volta però, a questo pensiero ne era presto seguito un altro, nella mente di Marco. Già, perché la prima volta che vide Jimmy, il buon vecchio Jimmy, questo si stava scopando indisturbato la sua ragazza (e con “sua” intendo di Marco), quella gran troia di Nicole. Risulterebbe banale riferire le bestemmie e i pensieri omicidi che gli erano venuti in mente, in quella luminosa mattina di un sabato di circa un anno prima.

Quando rivide l’inconfondibile orrendo hot dog sullo stesso culo moscio, Marco fu sicuro che si trattasse di Jimmy. Lesse il referto medico, si voleva accertare la causa di morte di mister tatuaggio-del-cazzo. Sul gelido tavolo autoptico, quello stronzo di Jimmy era nudo come un verme, bianco, maleodorante. In una parola, puzzava proprio di morto. Era passato a miglior vita soffocando, a quanto pareva, e la causa Marco già la sospettava. Quel vecchio porco aveva fatto chissà quali giochetti erotici, magari usando qualche bell’hot dog caldo e grosso per ficcarselo nel culo, vista la citazione sul suo corpo. E certamente maneggiando il suo. Però aveva commesso l’errore di legarsi con una corda al collo, per godere di più, traendo forse spunto dalla volpe di David Carradine, morto per un simile, piccolo ma fatale errorino di masturbazione.

Il nostro Jimmy non era, quindi, certo un genio, gli aveva fottuto la ragazza è vero, ma visto il quoziente intellettivo di lei era probabile che avesse trovato una maggior affinità intellettiva (o elettiva) per lo scimmione dal corpo palestrato che ora Marco si accingeva a squartare.

Ma il motivo per cui questi non riusciva a darsi pace, quel giorno grigio in quella stanza squallida illuminata a neon dell’obitorio, davanti al tavolo d’acciaio con mille bucherelli per far scolare il sangue dei tanti cadaveri che si erano offerti come vittime sacrificali alla scienza, quel tavolo intriso di morte, quasi palpabile nell’aria, e che ora accoglieva gelido il corpo di quel fottuto Jimmy; ciò che non gli permetteva di prendere in mano e utilizzare forbici scalpello sega e segatura per infarcire di nuovo quel tacchino dalla faccia butterata e con un’espressione di pseudo godimento per quell’ultimo fatale orgasmo; la ragione, insomma, per cui Marco era paralizzato dalla rabbia mista a delusione, era che Nicole - che da un anno ormai per lui era semplicemente La Gran Troia (nelle varianti Big Bitch o Sboldra - per gli amici di Marco), aveva giustificato il fatto di essersi fatta scopare quel sabato mattina da Jimmy wurstel-sul-culo con la semplice affermazione: “ce l’ha grosso, più di te, e mi fa veramente godere dopo anni. Ha un gran bel wurstel, capiscimi”. Lei, la stessa Nicole che si era ripetutamente lamentata della loro vita sessuale, della mancanza di desiderio tra loro, e che aveva addirittura chiamato a testimoniare nel tribunale dei litigi di coppia le dimensioni a suo dire troppo ristrette del pene di Marco. Lei, la Sboldra…

Quel ricordo balenò nella mente di Marco, e lo pietrificò: quel cadaverico Jimmy, bastardo stecchito, gli stava mostrando chiaramente un pene di dimensioni irrisorie, esaltandolo anche grazie alla depilazione integrale nella regione pubica che si fa ai morti, analogamente ai polli che vengono spennati per essere macellati e trasformati in squisiti e genuini chicken mcnuggets . Neanche il suo amico Pippo, soprannominato Small Dick, poteva raggiungere dimensioni altrettanto imbarazzanti. Il buon Jimmy avrebbe potuto vincere il primato di cazzo più piccolo in quei concorsi fenomenali cui partecipano in primis giapponesi, seguiti da altri uomini prevalentemente caucasici (di negri se ne vedono pochi da quelle parti, per noti motivi anatomici) privati di ogni forma di dignità e accomunati dalla “qualità” di avere un compagno di vita di dimensioni ridotte, lì sotto.

Il fatto che La Gran Troia l’avesse preso per il culo non lo faceva essere lucido, non riusciva a controllare la sua freddezza e obiettività di anatomopatologo.

Non si rese neppure conto, quindi, di aver già impugnato il bisturi e di averlo puntato verso ciò che letteralmente incarnava il casus belli della rottura tra lui e Niky La Sboldra.

La fine di questa storia la si può immaginare. Ora Marco ha appena finito il periodo di sospensione dall’Ordine dei Medici, non ha lavorato per parecchi mesi, durante i quali è andato in Giappone e ha partecipato a svariati concorsi di Chi ce l’ha più piccolo? o Qual è il mikado più fino?, non vincendo mai ed esultando per le sue sconfitte. Ora si sente meglio, ha perso dignità e reputazione sociale, tanti lo hanno creduto un pervertito e sua madre è schiattata fulminata da un infarto dopo che nel paese calabrese dove viveva (sì, dico calabrese proprio per sottolineare il fatto che i terroni non si fanno i cazzi loro) si sparsero le voci sui concorsi che suo figlio faceva, cose vergognose e disonorevoli, “Mazzi e panelli fannu i fighhi belli, pana senza mazzi fannu i figghi pazzi”, e ci lasciò quando un suo nipote le fece guardare il video tratto da Quale fallo riuscirà a passare attraverso la serratura?, in cui il suo Marco si classificò settimo (peraltro, la vecchia soffriva di problemi cardiovascolari ed era pure paraplegica, quindi per certi versi è stato un dono del buon vecchio dio chiamarla al paradiso degli storpi, dove oggi finalmente si sente integrata).

Ma dopo tanto tempo, ora finalmente Marco sta meglio, e ha la consapevolezza di avere un pene di nuovo valore. Ha comprato così la sua virilità. A caro prezzo, qualcuno dirà. Ma che prezzo ha sentirsi nuovamente un uomo? Cosa può valere di più della libertà di poter insultare a cuor leggero gli omosessuali o di guardare un film di Ozpetek ed esclamare: “che froci del cazzo”?


Vi domanderete che fine abbia fatto il pene di Jimmy, una volta evirato da un Marco tremante e rabbioso, ma al tempo stesso orgoglioso del suo membro rinato, per la prima volta dopo tanti anni di sofferenza, di pianti notturni, di pugni sulle sue palle che non riusciva ad accettare.

Beh, Marco pensò bene di impacchettarlo in una pellicola domopak, il tutto avvolto poi da carta stagnola, sembrava quasi un kebab. O un hot dog. Lo mise in un pacco e spedì il regalo all’indirizzo:

Nicole Gran Troia De Sanctis, via delle Verghe, 51 - Torino

Un biglietto accompagnava il regalo di Marco per la sua ex fidanzata. Un biglietto di poche righe, essenziale ma significativo, che chiude il cerchio di questa storia:

Ecco il tuo hot dog di carne fresca, veramente piccolo, ma perfetto per uno spuntino. Allego salsa rosa. Non ideale per microonde.

Giulio Pivot

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giovedì 22 dicembre 2011

Saranno Famosi

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Ci divertivamo così il sabato pomeriggio, dileggiando i malati terminali del reparto oncologia. Ci introducevamo durante l'orario delle visite per intraprendere lunghe conversazioni con i pazienti che attendevano qualche parente o qualche amico. Erano bellissimi nella loro sofferenza, una sofferenza senza alcuna ricompensa, a meno che la morte non si consideri tale. Questi esseri umani ormai prossimi alla data di scadenza erano estremamente vulnerabili quando ci approcciavamo a loro. Era facile avvicinarli con qualche menzogna; ad esempio fingendoci membri di qualche associazione di volontariato o dei semplici cittadini responsabilizzati che si sentivano in dovere di donare qualche ora del loro tempo ai meno fortunati. Instauravamo un rapporto di fiducia con la vittima in pochi minuti, tanto necessitavano di conforto, dopodiché approfittavamo del fianco scoperto che ci mostravano per canzonarli allegramente. Quando poi cominciavano a piangere e a chiamare le infermiere sbraitando, il piacere si mutava in orgasmo. Quelli che davano più soddisfazione erano gli uomini sposati; era bellissimo descriverli le meravigliose fellatio che le loro mogli avrebbero fatto a ciurme di scapoli dopo la loro morte. Poi scappavamo a gambe levate. Non eravamo cattivi, credo. Forse il nostro comportamento era dettato da un bisogno inconscio di catarsi aristotelica, di purificazione, di sublimazione delle nostre più recondite paure, di esorcizzazione dell'angoscia della morte. O più semplicemente eravamo solo dei poveri stronzi. Che volete farci, era sempre stato questo il nostro passatempo preferito, fin dalle elementari, quando prendevamo in giro i bambini a cui era morto un genitore. Sempre noi tre: Asdrubale, Renato ed io. Inseparabili. Dopo un po' di tempo però divenne sempre più difficile compiere le nostre scorribande. Ovviamente una volta introdotti in un reparto non potevamo più entrarci, ci avrebbero sicuramente riconosciuto con tutto il clamore che provocavamo. Perciò fummo costretti a lunghe e pedanti trasferte fino a che la noia degli interminabili viaggi in automobile per raggiungere qualche ospedale sperduto non divenne più forte della gioia che ci procurava torturare i terminali. Seguì un lungo periodo di tristezza e di baratro creativo. Un giorno Asdrubale, forse il più geniale tra noi, fu benedetto da Dio con un'idea folgorante. Alcune idee, si sa, viaggiano nel vento, sono sempre accanto a noi; dobbiamo solo avere l'accortezza di fermarci ad ascoltarle per poi farle nostre. Ed anche in questo caso l'idea di Asdrubale era sempre stata lì, sotto il nostro naso, aspettando che qualcuno di noi si degnasse di badarla. Il piano era più o meno questo: stuprare la mia fidanzata per poi costituirci e salire alla ribalta delle cronache nazionali grazie al caso mediatico volontariamente procurato. Mio Dio, il solo pensiero di finire a pomeriggio cinque con la D'Urso che ci intervistava ci faceva tremare di gioia mista ad eccitazione. Magari avremmo conosciuto anche Morelli. Per un attimo pensammo di non farne più nulla perché fantasticare sulla cosa era forse più bello che compierla, come scopare del resto. Ma solo per un attimo.

La settimana successiva, di martedì, stuprammo la mia ragazza in un parcheggio della Conad, un po' incazzati perché nella colluttazione iniziale la puttana aveva rovesciato una cassa di birra in offerta appena comprata; questo però ci diede la carica necessaria per completare il lavoro. Dopo aver abbandonato la nostra vittima su un carrello della spesa, tornammo a casa mia in attesa dell'arrivo delle forze dell'ordine. Niente da fare, nessuna chiamata, nessuno a sfondare la porta per arrestarci. Niente di niente. Il giorno dopo ci recammo a casa della mia fidanzata per capire cos'era accaduto. Venne fuori che alla vacca era piaciuto un sacco farsi penetrare violentemente dai nostri piselli, e ci implorò in ginocchio di seviziarla ancora, se possibile rincarando la dose di violenza, altro che denuncia. Sconfitti dalla vita ce ne tornammo con la coda tra le gambe nel nostro ammuffito rifugio. Questa volta però Gesù ci baciò subito, perché a Renato venne in mente di cercare un ragazzino affetto da sindrome di Down, picchiarlo violentemente, filmare tutto con una telecamera e pubblicare il video su Youtube. Successo garantito. Frequentammo per un po' di tempo una cooperativa sociale (le cooperative sono traboccanti di mongoloidi) finché individuammo il soggetto più adatto alla nostra impresa, ovvero quello con lo sguardo che esprimeva più pietà. Una mattina di Luglio, guadagnata la fiducia dei genitori fingendoci dei postini di Maria De Filippi, caricammo l'handicappato sulla mia Punto per dirigerci in un boschetto a poca distanza da casa sua. Una volta linciatolo e filmato, riconducemmo il disagio trisomico a casa, giustificando i lividi ai genitori affermando che erano stati causati da una caduta di Platinette in studio, ma che comunque la registrazione era andata benissimo. Ci fiondammo a casa per uploadare il video sul tubo. Le successive ventotto ore le passammo con gli occhi incollati allo schermo per controllare gli aggiornamenti delle visualizzazioni. Niente da fare: nessuno ci cagava. Forse era colpa del monopolio di Claudio Scazzi, entrato da poco nella scuderia di Lele Mora. Dov'è l'Antitrust quando serve?

Sta di fatto che dopo una settimana di spam in tutti i blog e siti web del mondo avevamo ottenuto solo un centinaio di visualizzazioni. Ma cosa bisogna fare per ottenere un po' di celebrità? Un esperto di webmarketing contattato via mail ci disse che eravamo arrivati tardi: il cyberbullismo era passato di moda già da sei mesi. Decidemmo di ricorrere all'omicidio come extrema ratio. Almeno un trafiletto su un quotidiano locale lo avremmo ottenuto, cazzo. Renato pensò che la figlioletta di dieci anni di Arturo, il suo dirimpettaio, sarebbe stata una vittima piuttosto abbordabile. Sapeva infatti che tornava a casa da scuola tutta sola e intercettarla durante il tragitto sarebbe stato un gioco da ragazzi. Senza perdere altro tempo, il giorno dopo squartammo la bambina dentro una casetta di legno situata in un parchetto vicino le elementari “Alessandro Baricco”. Questa volta, per evitare che la giovinetta fosse felice di essere stata ammazzata, ci presentammo in questura portando con noi il cadavere. Finalmente ci arrestarono. Ah che gioia infinita. Attraverso le sbarre della piccola cella dove ci avevano rinchiusi, riuscivamo a vedere i furgoncini delle reti televisive che cominciavano ad assediare l'ingresso della questura. Ormai era fatta, per fortuna il giorno prima ero stato dal parrucchiere. Restammo lì, in attesa di essere intervistati, ripresi, assaliti. Sfruttammo quei tempi morti provando tra noi le espressioni da assumere nel momento fondamentale della giornata, ovvero quando ci avrebbero fatto salire su un auto della polizia. Dopo sei ore però avvenne la tragedia. Entrò il commissario e ci disse, con aria rassegnata, che eravamo liberi da qualsiasi accusa. Potevamo tornare a casa. Non potevamo crederci. Perchè? Cos'era accaduto? Saltapadella, così si chiamava il commissario, ci disse che il padre della bambina si era costituito confessando l'omicidio. Com'era possibile? Noi avevamo le prove: il machete sporco di sangue, le nostre impronte su tre coltelli, il cadavere, tracce del nostro sperma nello stomaco della vittima.

“I giornali hanno deciso che l'assassino della piccola è il padre: è molto più interessante un genitore assassino rispetto a tre cazzoni come voi. Non posso farci niente ragazzi. Mi dispiace tanto” disse Saltapadella. Quel pezzo di merda di Arturo ci aveva inculato alla grande Noi a romperci i coglioni ad assassinare sua figlia, e lui a prendersi tutti i meriti. Sapevo che dovevamo ammazzare un nostro parente, uccidere un conoscente non porta ad alcun risultato. Nei tre mesi successivi il faccione di Arturo occupò tutte le copertine dei giornali e i servizi televisivi. Tra un grado del processo e l'altro riuscì anche a partecipare alla Talpa, classificandosi secondo dopo Padre Fedele. Noi invece, annegammo inconsolabili nella mediocrità.

Questa è la mia storia, la nostra storia: tre amici che non desideravano nient'altro che un po' di notorietà. Per essere felici, spensierati, ricchi da fare schifo. Ho scritto questo breve racconto autobiografico nella speranza che qualcuno prima o poi voglia pubblicarlo da qualche parte, sperando in un futuro migliore e sorridente, un futuro dove poter stuprare picchiare ed ammazzare senza essere scagionati e abbandonati nel dimenticatoio. In attesa che aprano il nuovo reparto di neurologia nell'ospedale della nostra città.

Fabio Nuoto

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mercoledì 21 dicembre 2011

L'albatro che prese il volo

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Questa è la storia di un albatro ferito che prese il volo in una mattina di Giugno.

Dall'altezza della gru si gettò nel roboante vuoto sottostante, aprendo le ali talmente tanto quanto fosse il dolore che provava nel farlo.

Voleva andare oltre i suoi limiti, l'albatro, la vecchia e arrugginita amica gru stava andando in disuso, abbandonata lì da mesi, dal freddo degli umani, dal giorno alla notte, come niente fosse, come non avessero voluto dire nulla tutti quegli anni di fedele lavoro.

Gli pareva assomigliasse a una delle attempate signore che, nelle mattine d'estate, portavano i nipotini lungo la diga, in un lunga passeggiata per mostrare, far capir loro cos'è il mare e suoi abitanti, nei significati più profondi, in quei momenti atterrava sugli scogli e con fare disinvolto si avvicinava tanto da poter prendere il cibo che le anziane gli porgevano.

Dicevano ai loro secondi figli di come gli albatri rappresentino la liberà: bianchi, eleganti e portatori della capacità di volare sopra le acque, viaggiare ovunque avessero voluto, rendendo conto unicamente a se e alla natura.

L'inferno di piume faceva male: nell'iniziare dell'ala destra il sangue cupo, segno del tempo, faceva sembrare la ferita un po' guarita, ma in verità sotto persisteva il dolore, un dolore nato dal colpo di fionda d'un ragazzino, dalle sue risa di soddisfazione e dall'estrema calma mantenuta nel mollare l'elastico.

Ma la vista dell'azzurra superficie sottostante lo rincuorava, i paesaggi visti durante le traversate avevano sempre curato per qualche minuto, completamente, le ferite e i suoi timori, alla luce del sole l'acqua era un mare di cristalli, luccicanti e talvolta sbavati, un dipinto proveniente da una realtà fantastica.

Sbatté lentamente ma con decisione ambedue la mani di piume, e sentì lenire ogni brutta sensazione dal corrente d'aria, che fresca e gentile lo accompagnava nel volo, nell'iniziar dell'anima del mondo, sentiva distintamente i suoi pensieri e le sue emozioni, la Terra gli parlava a bassa e sciolta voce.

Gli raccontò di come anch'essa stesse male, di come una parte dei suoi figli la maltrattasse con una parte delle azioni compiute, più che infelice per il corpo era infelice per lo spirito, stavano inquinando anche quello, che pure per essi, nella medesima sostanza e nel medesimo modo, rappresentava la vita.

La corrente venne bruscamente interrotta da una serie di fragorosi scoppi, provenienti da una scintillante nave bianca, sul cui ponte veniva festeggiata la prima partenza, per il dolore che tornò più intenso di prima, l'albatro fu costretto a posarsi sulla mano sinistra d'una consumata e rovinata statua, raffigurante Cristoforo Colombo, ''come cercano di copiare noi albatri gli umani'' pensò il viaggiatore, per quanto barche o aerei fossero ben progettati non avrebbero mai potuto eguagliare il volo d'un uccello marittimo, continuava a mancare il rispetto all'esperienza e alla natura del volo, non sapevano ancora bene che volesse dire farlo e far tesoro dei panorami visti.

A cerimonia terminata, l'albatro si mosse con un battito di ciglia d'ali, planando cosi nelle viuzze di quel paese di mare, con le case tinteggiate da svariate tonalità di rosa, blu e giallo, si spostava tra i bianchi panni stesi ad asciugare.

Nella piazza centrale, all'ombra protettrice dell'alto campanile, si apriva un vasto mercato, banchi di uomini e prodotti, e prodotti di uomini, che vendevano la loro merce, le loro anime, mischiati a chi le comprava; Dall'alto vedeva una pavimentazione di mattonelle quadrate divise tra chi voleva una vita ricca, di denaro, e chi, in svendita, la voleva acquistare, perché anch'esso ne era privo.

Vedeva scorrere quelle immagini, come fotogrammi d'una passata pellicola 8mm, sotto di se, l'ala tornò a far più male del vuoto di quei secondi, costringendolo a fermarsi sullo spigolo di un capitello.

Un mercante, alla vista dell'uccello, prese una cassetta vuota e gliela tirò addosso, sbraitando: ''vattene uccellaccio!'', l'albatro si spostò allora su un malconcio carretto, ma anche da lì fu costretto a fuggire, cacciato da un'anziana signora, inneggiante maldicenze e agitante una scopa spagliata tra le mani.

I due spostamenti furono troppo rapidi per le sue precarie condizioni, riuscì in un accenno di volo, che lo portò a posarsi su un banchetto, vendente foulard colorati, quanto era soffice quella coperta di sottili veli sotto le piume! Il riposo cominciò ad espandersi lungo tutto il corpo e l'ala malata gli sembrò meno tormentata.

Dietro, un uomo mingherlino, gli sfilò da sotto i tessuti all'improvviso, spingendolo a librarsi via, nuovamente, lontano da quel posto inospitale.

Non erano capaci d'accettare e convivere con esseri diversi; La frustrazione di vita, incattivendoli, rendendoli soli, gli impediva di aver serenità per andare oltre i limiti e aprire la mente a cose nuove, a viventi nuovi.

Trovò così riparo in una grande terrazza, d'una abitazione apparentemente disabitata, racchiusa tra i tetti di due palazzi del centro del paese, anch'essi in vistoso abbandono, nessuno lo disturbò ma il forte vento, proveniente dal mare, era tagliente e pungeva sul corpo già abbastanza provato, trascorse lì le ore successive, solitudine che vide l'arrivo della tepore della sera.

L'albatro, oramai stanco, si diresse lungo una fila di vecchie e alte case, a ridosso della laguna, nelle strette viette che le dividevano vedeva bambini giocare rincorrendo un pallone, cercando di sovrastare il rumore delle barche che partivano, passavano o attraccavano.

Tra un edificio e un altro panni venivano stesi sui fili, andando a macchiare di bianco il rosso carico e scuro o il rosa lieve di cui erano strisciati i muri esterni.

Un uomo dall'alto di una terrazza, prendente tutto un tetto, ammirava l'orizzonte.

Era un giovane dallo sguardo sottile e sereno, le pupille, che lasciavano trasparire il loro intero mondo interiore, brillavano, l'albatro si domandò se era per gli ultimi raggi calanti che le illuminavano, o per una felicità innata e naturale che le pervadeva.

Si domandò da dove provenissero, ma dentro sapeva che l'anima del mondo e di chi vive si trova tra cielo e terra, tra il marrone dei campi, il grigio delle strade di città, il blu del mare e il celeste del cielo, il nero profondo dello spazio.

Nell'aria fresca della sera, in quel posto sopra, oltre la normale realtà umana, si respirava tranquillità e l'uccello aveva chiuso lentamente le sue ali, trovando ristoro sul cornicione di ferro chiaro a pochi centimetri dalla persona che cercava di comprendere, come stesse slacciando i nodi delle corde di una nave.

L'uomo non si scostò minimamente, immise nella corrente passante alcune parole, rivolgendosi all'albatro ferito: ''vedi, caro amico mio, l'amore, in ogni sua sfumatura, è come questo mare, può inghiottirti o farti navigare, nuotare nel piacere della sua superficie, tra intensità e leggerezza, dipende unicamente con che occhi lo guardi''.

L'uccello si girò istintivamente, le loro viste s'aprivano all'orizzonte, sulla vastità mediterranea: metallo chiar'azzurro spruzzato dal rosa tenue e rarefatto dell'incombente sera, scivolante come un fine velo dalla gambe del mondo, per lasciare posto a quello che v'era sotto, agli onirici, misteriosi piaceri della notte.

Nessuno avrebbe voluto abbandonare quei minuti di benessere, ma erano consapevoli che le ore successive non sarebbero state da meno, sarebbero state meglio, il mondo così gli parlava, lo sentivano naturalmente, decisero di seguire quel senso di sicurezza, salente come la luna nei medesimi istanti.

L'albatro spiccò deciso il volo dirigendosi nel retro della casa, verso la laguna, la quale dopo pochi metri immergeva la terra in un mare di pescatori, storie e avventure.

Buoni profumi di cene cucinate in casa provenivano a tratti dalle finestre, illuminate dalle prime lampadine accese, il retro delle abitazioni, messe in fila una dopo l'altra, era bordato da una lunga via pedonale, lastricata di liscia e levigata pietra bianca, zona evidentemente da poco messa a nuovo.

All'angolo destro di una delle viuzze, nel suo finire in discesa verso le barche, l'acqua verde, un po' torbida e i pali alti e grossi, coprenti parti del globo arancio acceso dell'ultimo sole, un uomo chiudeva la porta di un minuscolo negozio di alimentari, minuscolo come il baretto a qualche metro sulla sinistra, dove una malandata radio dagli anni '60 trasmetteva ancora canzoni popolari a singhiozzo, portando suoni di Mina e Tenco agli anziani che, sui tavoli di bianca plastica sporcata dall'incuria, battevano le carte, accendendosi a turno sigarette delle più improbabili marche.

Solo il fumo dell'unica pipa presente riuscì a durare talmente tanto, prima di disperdersi, da arrivare così in alto da oscurare parzialmente l'illuminazione di uno dei lampioni, che s'accesero nella noncuranza generale.

Il barista, però, sorseggiando una tazzina di caffè, nell'attesa di qualche nuovo, malcapitato cliente, s'accorse dell'aura dorata che regalavano a quel piccolo e intenso mondo, lo facevano sembrare uno di quei nascosti borghi parigini bohémien, tra edifici passati e malandati, abbozzate perfezioni e ricchezze uniche di particolari.

L'albatro stava con le zampe basse e le ali raccolte, a guardare gli occhi fissi e lucenti dell'uomo col caffè in mano, raffreddatosi lungo il trascorrere del tempo, l'uomo spostò lo sguardo, lo alzò e, accorgendosi dell'uccello, gli sorrise serenamente, i denti erano ingialliti dall'età e della sigarette, carichi di contentezza per quella sua vita, quel suo lavoro sempre a contatto con le persone, d'ogni tipo, dalle, come lui, semplici, alle più disparate, un mosaico d'umanità composto da turisti e singolari soggetti, varietà d'esperienze, emozioni e condivisioni.

Pungente salmastro, dall'acqua che timidamente s'infrangeva sul molo, arrivava al respiro, come ultime reti fatte su da pescatori e ormeggi lanciati in porto da marinai, dopo un'intera giornata passata al largo.

L'albatro decise che era ora d'andare, l'ala era tornata a dolergli non poco, il dolore gli premeva sul corpo, forse non avrebbe dovuto muoversi tanto vista la sua situazione, ma si disse che ne era valsa la pena, a fronte dell'esperienza vissuta e delle cose viste nel trascorrer delle ore.

Prima la vita, il muoversi, in ogni suo aspetto, e poi il resto.

Stringendo il becco s'alzo in volo, andando sempre più in alto, riuscendoci, tanto da vedere una cucina all'ultimo piano, dove una famiglia s'era appena seduta a tavola, numerosa e confusa in quel frastuono di voci, ma felice d'esser tutta assieme.

Girando il capo e il corpo per dirigersi verso sinistra, notò un piccolo puntino nero che gesticolava qualcosa, il dolore continuava ad aumentare e la vista per qualche secondo gli si appannò, cercando di mettere a fuoco si rese conto essere il proprietario del bar, che, con la mano all'altezza dei folti capelli neri, lo stava salutando.

In quella parte d'umanità qualcosa era diverso, la cattiveria pareva non esistere e che fossero tutti più buoni, forse il contatto diretto col mare scioglieva il calore degli animi, come distese di bruna cioccolata calda che all'imbrunire sciolgono il vento gelido, preso in mare nelle prime ore mattutine, quando si esce con le barche.

Volò oltre le imbarcazioni, le case, le piazze e le loro bancarelle, piene d'oggetti d'antiquariato che i commercianti stavano disponendo per il mercatino della sera, la banda musicale provava nell'anfiteatro sul mare, che indifferente al di sotto sbuffava per la stanchezza, dopo un'interna giornata di lavoro, tranquillo e limpido, sulla spiaggia un ragazzo e una ragazza mangiavano della pizza, facendo toccare le punte dei loro nasi, mentre l'allegria si disegnava gioiosa e orgogliosa sui loro volti, guardarono successivamente il velo d'acqua e la sagoma nera dell'albatro delinearsi sul grande sole circolare, sciolto e sempre più sbiadito nell'incontro con la linea dell'orizzonte.

Prendendo spunto dagli innamorati, l'animale decise d'andare a liberarsi dei brutti pensieri, contemplando lo spettacolo di vita e della natura, sopra uno scoglio, sconosciuto ai più.

Puntava nell'immensità e unicamente il suono del vento era udibile, raggiunto la punta arrotondata di roccia, scese e si strinse ad essa.

La notte stava calando dall'alto dello spazio, penetrando nelle terra e nelle acque, ombra blu elettrico attraversata da una corrente alternata, imprimente il fuoco delle scosse e delle scintille sulla volta celeste, genesi delle stelle.

Gialli, arancioni e rosa scomparirono progressivamente, i suoi splendenti occhi scuri si chiusero nel fuggire di un secondo, dopo il qualche concluse l'ultimo respiro delle sua vita.

In quelle ultime scene viste, in quegli ultimi momenti trascorsi, sapeva ancora esserci una speranza di vita, in quella magia, per un'umanità al collasso, e per il mondo che aveva in mano, il quale avrebbe dovuto curare invece di trattar male.

Ne fu sicuro al tramonto: per un domani migliore, un nuovo giorno, non c'è altra via che la notte, un nuovo giorno migliore sotto ogni aspetto, rispetto al precedente.

L'albatro sarebbe rinato a nuova vita, come fenice nell'incendio del sole del mattino, ma adesso era cullato dal blu oscuro del mare, in cui risplendeva, riflessa, una costellazione di stelle.

Ottobre 2011


Di Matteo Molon

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martedì 20 dicembre 2011

Cinetica

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«Zooma sulla sua faccia. Così. Seguilo. Non perderlo. Fallo girare a destra. Ora. Ora dannazione!»

«È sicuro?»

«Che nessuno si permetta più di mettere in discussione ciò che dico. Non lo ripeterò. Fallo girare a destra, nessun ripensamento.»

«Aumento arousal…»

«Inizia a contare i passi bello… oggi ti prepariamo una bella sorpresa.»

CINETICA.

Nessuna sorpresa per la verità. Intuiva qualcosa, ma ciò nonostante continuò a camminare conscio di quel bell’affare in cui si stava andando ad impicciare. Caldo e umido. Ecco come si presentava il setting. Durante il percorso, accuratamente scelto, volse il suo sguardo in più direzioni ossessivamente, progressivamente, sempre più agitato.

«Si avvicina al target. Lasciamogli completare il percorso senza ulteriori variabili di disturbo.»

«Neanche per sogno. Introduzione soggetti S e N a cento metri dal soggetto, direzione nord-ovest. Ora.»

«Mi permetta di dissentire. Sa bene che in questo momento il farmaco sta agendo. Potrebbe avere ripercussioni negative.»

«Testiamo esattamente questo. Confermo quanto detto. Procediamo.»

La vecchia strada in pietra composta da lunghe e larghe lastre scure appariva come un susseguirsi di campi e canali che il ragazzo cercava di seguire con lo sguardo immaginando una città sopra la quale camminare, regnare serenamente, riposare ed evitare quel disastro imminente. Quasi a volersi salvare la pelle si chinò sotto il peso della borsa per vegliare, più attento, sopra quella città.

«Cosa fa? »

«…»

«Che cosa diavolo sta facendo?! Fatelo alzare! Ora dannazione!»

«Quindici secondi all’introduzione dei soggetti S e N…»

«Dai bastardo… alzati… solleva quella testa pesante…»

«Una distorsione del suo ambiente prossimale. Si sta rifugiando dentro di sé. Un effetto collaterale. L’avevamo avvertita.»

«Al diavolo. Insistiamo con l’adrenalina. Si alzerà.»

Nella città niente di più che qualche insetto. Una condizione alla quale ora era quanto mai vicino, pensò. Forse, in virtù di questo, abbandonò la sua posizione sovrana di osservatore e riprese a camminare. A pochi passi dalla piazza, spinto da qualche forza, volse lo sguardo a sinistra dando un addio al suo stato precario ma sufficientemente tranquillo. Era lì. La peggiore visione di tutte. Pochi secondi ma sufficienti a scuotere il soggetto. Una gestalt di corpi tremenda, inedita, spaventosa più di qualunque incubo, si impresse sui suoi occhi castani. Poi nulla più.

«Un ottimo lavoro!»

«Sta cedendo. Rischiamo di interrompere il contatto…»

«Non sarà necessario, lasciatelo in piedi il tanto di portarlo alla fine del percorso, resisterà.»

«Film lacrimale in aumento…»

Una musica. Senza una provenienza. Tuttavia essenziale nel permettere a quel corpo di muoversi ancora. Non di pensare, ma di muoversi. E poi una visione. Uno spazio, un prato enorme e due sorrisi che si addormentano vicini e si promettono eterna prossimità. Dunque una movenza della bocca del ragazzo. Essa si torse fradicia di strati acquosi e mucosi… e d’un tratto un sorriso.

Inaspettatamente quella serenità allucinata si ripercosse sul suo volto contorcendolo in un sorriso ad occhi alti, serrati, roridi.

«Cosa fa?! Sorride?!»

«Probabile meccanismo di regressione in atto. Il soggetto sta allucinando uno stato di serena regressione somatizzandolo in un sorriso.»

«Non riesco a crederci… dannato insetto…»

«È un buon segno, conserva un’integrata unità psicofisica.»

«Procediamo.»

«Lasciamo intatto questo stato semi-allucinatorio?»

«Direi di si. È bell’e morto dentro. Eppur si muove l’insetto…»

Si ritrovò attaccato ad una bottiglia, a quella umidità esteriore evidentemente si contrapponeva una forte aridità interiore, unica sensazione percepita, voleva tornare a casa, nient’altro. Era arrivato alla fine del percorso.

«Ce l’ha fatta. Riportate i soggetti S e N sul campo. Ora.»

Stette con gli occhi incollati a quella bella città che si era costruito a terra, edificando gioia e serenità, coltivando campi di speranza. Aspettava di tornare a casa, ma fu un attimo: sollevò gli occhi che subito si spensero. Anche il più forte dei sorrisi si contorse in una smorfia di dolore che serrava le labbra prosciugando nuovamente tutti gli stati liquidi all’interno di quel corpo per riversarli fuori, inevitabilmente, su quel viso contratto e distrutto.

«Sta reagendo. Percezione ancora funzionante… purtroppo per lui.»

«State pronti a registrare ogni singolo cambiamento.»

«Aumentate la prossimità tra S e N.»

«Ma signore…»

«Fatelo e basta.»

L’immobilità. Tutti gli arti e i possibili movimenti vennero eliminati dalle sue opzioni, costretto a guardare, ancora per qualche istante, finchè non riuscì a staccare lo sguardo e posarlo di nuovo sulla bella città ai suoi piedi chiedendo, implorando gli insetti di trascinarlo laggiù e proteggerlo da quel dolore insopportabile, tanto più che le sue sembianze erano sempre più simili a quelle dei piccoli abitanti. Si inchinò per l’ennesima volta, distrutto.

«Cosa sta facendo?»

«Si protegge… si nasconde…»

«Dannato idiota perché non reagisce contro i soggetti di disturbo?»

«Signore terminiamo qui il contatto. Non mi sentirei di continuare.»

«Neanche se ne parla! Massima prossimità fra i soggetti di disturbo! Livello intimo! Ora!»

Riuscì per l’ultima volta ad alzare lo sguardo verso due smeraldi una volta di suo possesso, ora socchiusi e appena visibili nascosti da un volto estraneo incollatogli sopra, prima di adagiare le ginocchia al suolo e rendersi conto improvvisamente di aver allagato quella parte di città che sottostava al suo volto bagnato e nella quale sarebbe voluto sprofondare.

«Dobbiamo interrompere. Abbiamo sufficienti dati. Non avrebbe senso continuare tanto più che non è un bello spettacolo, chiudiamo l’osservazione.»

«Maledetto idiota, la pagherà.»

Di nuovo quella musica. Di nuovo quell’immagine. Il sole era basso e pallido, ora che erano sparite il resto delle presenze, e con loro le proprie ombre, i suoi raggi potevano andare a toccare la città bagnata facendola brillare e risorgere, facendola apparire come un nuovo rifugio per quell’insetto.

Dissolvenza.

Quel pomeriggio non ce la faceva più, le sue mani tremavano e le gocce di lexotan stavano ormai evaporando tra i suoi tessuti sempre più asciutti, componenti di un’anima in fiamme, già bruciata da qualche mese. Prese il telefono e compose l’ultimo numero che avrebbe dovuto comporre. La sua voce, appositamente modulata per mettere in atto la consueta scena da melodramma, era pronta a riversarsi mesta sul microfono, ma qualcosa mutò: dall’altra parte del telefono singhiozzi. Chiari, palesi, chiarissimi singhiozzi da sgorgamento di film lacrimale. Risuonarono nelle sue orecchie come qualcosa di sconvolgente, come se rivelassero chissà quale verità nascosta dietro le sue ultime avventure che l’avevano vista così felice e sicura di sé.

Schiarì il tono della sua voce e si ricompose, pronto a prestare aiuto alla fonte di suoi stessi dolori.

E ci furono le parole, le sensazioni, le rivelazioni. Reciprocità e non reciprocità in circa dieci, quindici minuti durante i quali quell’insetto venne schiacciato amorevolmente, lasciandosi dolcemente schiacciare, riversando tutti i più dolci liquami a nutrire quella fonte che si riempì nella giusta quantità, il tanto di recuperare il liquido perso poc’anzi, non di più. Nulla per cui l’insetto dovesse sentirsi ringraziato in modo particolare.

E si chiuse lì.

«Cosa fa ora?»

«È morto, signore.»

«Non vorrà piangerlo, chi è causa del suo male pianga se stesso!»

«Chiudiamo il contatto?»

«Io…Mi chiedo cosa spinga una persona a nutrire la sua sofferenza, a innaffiare la pianta spinosa nel suo cuore, ad affilare con cura gli stessi coltelli che lacerano la sua anima!»

«Beh, i rapporti umani si nutrono di disordini, complementarità incomplete, tentativi di incastro che generano sorprese stupefacenti, brividi inaspettati! Ma anche delusioni tremende e atroci sofferenze… Forse è tipico di questa razza, signore.»

«Non dica idiozie. Che dire di tutti gli umani più grandi che perseguono la propria felicità, il proprio benessere! E se questo presuppone il conflitto o un essere egoistico… E sia! E sia pure così!»

«Il benessere può scaturire anche dal rispettare chi si ama… dargli un conforto.»

«…Lei non sa cosa manca in quest’uomo, vero?»

«Credo di saperlo, signore. Egli manca di forza.»

«Lei non capisce, davvero. Di cinismo si tratta. E di null’altro. Chiudiamo il contatto senza versare una lacrima.>>

Di

Elias P. Casula

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